La pratica della “verniciatura verde” (greenwashing), nell’ambito del regolamento 2020/852, consiste nell’ottenere un vantaggio sulla concorrenza in modo sleale commercializzando un prodotto finanziario come ecocompatibile quando in realtà gli standard ambientali di base non sono soddisfatti.
Il Regolamento 18 giugno 2020, n. 2020/852/Ue relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili al suo articolo 3 stabilisce quando un’attività economica sia ecosostenibile (e quindi il grado di ecosostenibilità di un investimento in tale attività).
Per un’analisi sul Regolamento si rimanda alla pagina.
Dati gli impegni assunti con l’accordo di Parigi e a livello di Unione, è probabile che sempre più Stati membri istituiscano sistemi di marchi o impongano altri requisiti che i partecipanti ai mercati finanziari o gli emittenti dovranno soddisfare per poter promuovere prodotti finanziari o obbligazioni societarie come ecosostenibili.
Si conferma l’importanza della certificazione per il riconoscimento affidabile di un prodotto green.
Ma il greenwashing è una pratica che interessa non solo il mondo finanziario, bensì qualunque attività economica. Tant’è che la Commissione europea ha sentito l’urgenza di diffondere una nuova proposta.
La proposta di Direttiva della Commissione europea del 30 marzo 2022 relativa alla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione è un nuovo tassello nella lotta al greenwashing.
È opportuno introdurre nella normativa dell’Unione in materia di tutela dei consumatori norme specifiche volte a contrastare le pratiche commerciali sleali che impediscono ai consumatori di compiere scelte di consumo sostenibili.
La garanzia che le dichiarazioni ambientali saranno eque permetterà ai consumatori di scegliere prodotti che siano effettivamente migliori per l’ambiente rispetto ai prodotti concorrenti.
E come strumento di garanzia la Commissione individua la certificazione.
Si legge infatti nella proposta di direttiva che “È opportuno quindi vietare l’esibizione di marchi di sostenibilità non basati su un sistema di certificazione”. L’assenza di certificazione rende quindi la pratica commerciale sleale in qualsiasi circostanza.
Il sistema di certificazione mira quindi a soddisfare condizioni minime di trasparenza e credibilità.
L’esibizione di marchi di sostenibilità è possibile in assenza di sistema di certificazione solo se il marchio è stabilito da un’autorità pubblica.
Per sistema di certificazione, la Direttiva intende qualsiasi sistema di verifica da parte di terzi, il quale certifica che un dato prodotto è conforme a determinati requisiti e nel cui ambito il monitoraggio della conformità è oggettivo, basato su norme e procedure internazionali, unionali o nazionali, ed è svolto da un soggetto che è indipendente sia dal titolare dello schema di certificazione sia dal professionista.
E’ questa la definizione di eco-etichettatura che troviamo nell’articolo 69 del Codice Appalti (Dlgs 50/2016) secondo cui per potersi parlare di certificazione ambientale indipendente deve esserci una netta separazione tra chi effettua l’attività di verifica e chi ha elaborato lo schema di certificazione. Sostanzialmente quindi, non solo sono escluse le autodichiarazioni ma sono anche escluse le certificazioni rilasciate da Enti di certificazione sulla base di proprie norme o protocolli interni.